quinta-feira, 29 de agosto de 2019

Nugoléto

Qual è la tua parola italiana preferita?

Probabilmente non l'avrete mai sentita, non si trova forse neppure nei dizionari odierni, è, anzi, considerata estinta. Ma il difetto delle reliquie della lingua è che finché uno non le ripristina nessuno le può ammirare e considerare, al contrario di qualsiasi altra reliquia o pezzo storico. Con questa risposta, spero di resuscitare, a mo' di taumaturgo speranzoso di fiducia altrui, una delle parole che più, peraltro, mi identificano, o, meglio, descrivono armoniosamente e allusivamente quella sensazione che provo quotidianamente. Uno sciamano della lingua ha bisogno solo della scrittura per compiere questo miracolo della resurrezione: la scrivo ed ecco che rinasce. Concedetemi quindi l'assenza della formula magica.
 

Nugoléto: atmosfera opprimente di pensieri, di ambasciose angosce e di interminabili irrequietudini.
 

Ma da dove proviene? Da nùgolo, variante arcaica e letteraria di nuvolo, dal latino nubilum, a sua volta dalla radice indoeuropea *nubh, coprire, velare, oscurare.
Il nugolo propriamente è l' immagine di una quantità di elementi, per lo più minuti, addensati in modo da sembrare una nuvola. L' intonaco dal candido al grigiastro spalmato a macchie nel cielo immenso, lo strascico sfumato che oscura la luce solare e ci obumbra, aduggiandoci col il suo moto casuale. E da questa fisica foggia dell'etere nasce la metaforica rappresentazione del nugoléto, la quale si concretizza nella sensazione che noi proviamo a guardare il cielo velato, allorquando è tetro e procelloso, cupo e imperscrutabile.
 

L'ammasso nuvolare che si proietta nella mia mente, colorandola (non a caso dalla stessa radice del verbo celare) del suo contraddittorio neralbo, e simultaneamente attristandola, angustiosamente immelanconendola. Ed è subito bruma intellettuale, vortice affannoso di pensieri, meteoropatia, tempesta emotiva, inconscia, incontrollabile, confusa. Guardo il cielo tetro e penso, guardo il cielo e non odo più, guardo il cielo e mi spengo per accendermi dentro di una luce oscura. Mi lascio trasportare ma la negatività si ammassa come le nuvole foriere di pioggia. Ormai le nuvole le ho dentro, il nugoléto, il mio, il correlativo soggettivo di ciò che fuori vedo. Inevitabilmente diverso da ciò che vedi tu, e come dal contorno delle nubi ora tu ora io scorgo la linea di profilo che ritrae un volto, una fiera in corsa o un uomo sdraiato, così la medesima forma suscita chissà cosa in noi. La chiamano pareidolia l' associazione mentale di oggetti in natura ad altre immagini che li rammentano. Ma io non so a cosa somiglia e nemmeno cosa sia il nugoléto che ho dentro, ché ora è tuono e mi spaventa ora è lampo e abbaglia ciò che di me non voglio vedere, ma che ora riappare. E anche se là fuori ancor non piove, tutto questo mi imbrefà, e piove dentro di me, e se le lacrime non cadono è perché non era ancora intelligibile abbastanza quella bufera che è in me.

Mattia Calcagno, Docente di latino e greco | traduttore | divulgatore |